LA MEMORIA NON è UN RITUALE FINE A SE STESSO

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Mi sono domandata, più o meno come ogni anno, se avesse senso scrivere qualcosa sulla Shoah in occasione della ricorrenza della Giornata della memoria.
Tutto questo perché sono sempre stata un po' scettica verso la celebrazione istituzionalizzata degli eventi.
Le mie perplessità derivano dal fatto che, anche se la Giornata della memoria è stata creata con i migliori intenti, siamo sempre a rischio di una sorta di banalizzazione dell'Olocausto. Si rischia cioè di far diventare questa giornata qualcosa di routinario, qualcosa che ogni anno si ripete in modo meccanico e sempre uguale. Un giorno in cui per essere a posto con la coscienza basta condividere una frase a caso di Primo Levi o la foto dei cancelli di Auschwitz corredata da didascalie come “Ricordare sempre” o “La memoria ci rende liberi”.
Tuttavia mi rendo conto che queste giornate, celebrate in date specifiche, hanno la capacità di riportare l'attenzione su alcuni episodi della nostra storia, più o meno recente, che spesso vengono dimenticati o ignorati dai più “distratti”. Se quindi il Giorno della memoria è in grado di far riflettere qualcuno, se è in grado di ricordare a tutti che qualcosa è successo e dobbiamo lottare per far sì che non accada più, se farà pensare anche a una sola persona nel mondo che questo argomento merita un approfondimento e farà leggere un libro in più, un manuale di storia in più, se farà appassionare anche una sola persona in più alla storia del nostro Paese e dell'Europa di cui facciamo parte, se permetterà a qualcuno di diventare un cittadino più consapevole e informato, allora ben venga.
Quindi la risposta è sì, forse ha senso. Per questo ho deciso di scrivere anche io la mia riflessione su questi argomenti, riprendendo in parte un post che avevo scritto su Facebook in occasione di questa ricorrenza qualche anno fa.



Per prima cosa è necessario capire perché è importante ricordare: il ricordo ha potere se ha lo scopo di dare senso al contemporaneo, la memoria serve se è proiettata verso un'utilità nel presente. La storia deve essere sempre indagata e studiata con lo sguardo ben saldo sull'oggi. Che senso avrebbe ricordarla senza che questo ricordo provenga da domande attuali? Riflettere sulla storia significa riflettere sul presente, sempre.
Bisogna ricordare poi che le vittime della Shoah non sono state soltanto gli ebrei, come da uno sguardo superficiale potrebbe apparire. Le vittime della follia omicida nazista sono state tutte le categorie sociali ritenute in qualche modo sbagliate o devianti: gli omosessuali, le popolazioni Rom e Sinti, gli "asociali" cioè senzatetto, vagabondi, malati mentali e alcolizzati e tutti i delinquenti comuni. Le vittime della Shoah sono state anche donne e uomini con credo politico diverso dall'ideologia dominante nazista.
Un triangolo di stoffa cucito sul petto, un triangolo di colore diverso per ogni differente categoria, identificava a colpo d'occhio i diversi prigionieri. Il simbolo della loro differenza, il marchio della loro condizione sociale, di quella condizione sociale che è diventata una colpa, doveva essere esibita e ben visibile, fino al punto che i prigionieri stessi si identificavano con la sola identità che i loro aguzzini gli attribuivano. Quando sei un numero, un “pezzo”, come i nazisti chiamavano in gergo gli internati, ci vuole una forza impensabile per poter resistere al totale annientamento della persona, non solo fisico ma anche mentale, operato dai nazisti. Per questo Primo Levi parlava di sommersi e salvati nel suo libro omonimo. Perché anche chi si è salvato alla fine ha dovuto convivere con il senso di colpa e con il pensiero fisso che forse l'essersi salvato non veniva considerato un merito, ma solo l'esito di un adattamento a vivere in quelle condizioni, sentendosi quindi quasi in dovere di giustificare agli altri il motivo della propria salvezza:

I "salvati" del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l'esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della "zona grigia", le spie. Non era una regola certa (non c'erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”

Milioni di uomini, donne e bambini sono stati sterminati e la loro colpa è stata unicamente quella di essere stati se stessi.
Ma chi sono stati gli esecutori materiali di questo genocidio? Ci immaginiamo i nazisti come esseri mostruosi e malvagi, in realtà resteremmo sorpresi nello scoprire che erano solo delle persone comuni. Uomini che prima dell'avvento del regime nazionalsocialista in Germania erano probabilmente semplici impiegati, commercianti, commessi. È, come direbbe Hannah Arendt, “la banalità del male”: ancora più angosciante, se ci pensate, che coloro i quali si sono macchiati di queste colpe indicibili non sono dei mostri disumani ma sono persone comuni, come in fondo potremmo essere tutti noi. Un giorno sei alla scrivania a compilare scartoffie e resoconti di contabilità e il giorno dopo il tuo lavoro in ufficio diventa quello di organizzare gli orari dei treni per Auschwitz e timbrare autorizzazioni per le deportazioni. “Noi eseguivamo solo gli ordini”: questa è la giustificazione più comune che hanno dato i nazisti a prescindere dal gradino occupato a livello gerarchico. Erano impiegati modello che eseguivano senza fiatare anche gli ordini più crudeli dei loro superiori.
C'è qualcosa di molto pericoloso in tutto questo, l'uomo ha dimostrato che essendo stato possibile una volta, in linea di massima in un futuro più o meno prossimo potrebbe succedere di nuovo.
Episodi di intolleranza e discriminazione che ancora oggi si perpetuano nel quotidiano sono quindi molto più pericolosi di quello che sembrano in apparenza, perché basta poco per far degenerare la situazione e dar vita alla ripetizione di una della pagine più buie della storia del secolo scorso.
Quindi il miglior auspicio, almeno da parte mia, per far sì che la Giornata della memoria non sia solo una vana celebrazione fine a se stessa, è quello che ognuno di noi faccia uno sforzo nel piccolo della sua quotidianità per far sì che gli insegnamenti che abbiamo colto dalla orrenda vicenda della Shoah non vadano perduti.
Nessuno chiede più di quanto siamo in grado di fare. Non abbiamo bisogno di eroi e salvatori dell'umanità ma di cittadini in grado di capire e prevenire le situazioni che mettono a rischio l'incolumità di determinate categorie sociali.
La questione è quindi molto più semplice: guardiamoci intorno. Osserviamo la realtà di cui siamo parte e facciamo in modo che il mondo in cui viviamo diventi un luogo migliore per tutti e dove nessuno debba più pagare per colpe inesistenti attribuitegli da altri.
Come suggerisce un antropologo americano, Philippe Bourgois (in un'etnografia di cui vi avevo già parlato qui): "Levi indica ai lettori come imperativo etico dei nostri giorni il compito di riconoscere le zone grigie meno estreme che operano nella vita quotidiana".
La zona grigia, simbolo della desolazione etica imposta dai nazisti nei campi di sterminio nei quali i deportati lottavano per sopravvivere, un luogo in cui gli imperativi della sopravvivenza prevalgono sulla dignità umana e dove la linea sottile tra vittime e carnefici è sempre più confusa, continua ad esistere. Ovviamente con minore potenza e con carattere meno estremo di quella presente in una situazione limite come quella dei campi di concentramento. Ma c'è, esiste ed è nascosta negli angoli remoti della società, tra quegli emarginati che troppo spesso la cosiddetta "società civile" ignora o colpevolizza per la propria condizione.
La memoria non è un rituale fine a se stesso, ma uno strumento per analizzare la contemporaneità.

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